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Vini del Piemonte, Strevi DOC, passito da uva Moscato, storia e leggenda

Articolo scritto da Fabio Molinari per Barolo & CO

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Nel settembre 1917 Carlo Alberto Salustri, più noto come Trilussa, aveva 46 anni ed era un poeta affermato sulla scena nazionale. A Strevi, ospite del cavalier Balbi, apprezzato produttore di vino e fornitore di casa Savoia e del Vaticano, scrisse voci lontane. Lo ispirarono queste colline, dove la cantilena che proveniva dalla campagna di sera – quasi come il canto delle sirene – rischiava di far dimenticare, nella rilassatezza dei sensi, il dolore della guerra.

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L’estate del ‘17 fu difficile climaticamente, segnata da piogge abbondanti che resero ancora più duro il fronte dove si stava combattendo la fase più sanguinosa del Primo conflitto mondiale. Non sappiamo come fu quell’annata del Moscato passito di Strevi (l’attuale denominazione Strevi sarebbe arrivata ottant’anni più tardi) ma, cercando nelle cantine del paese, forse è ancora possibile scovarne una bottiglia per togliersi la curiosità: perché, se esiste un elemento che contraddistingue queste vino, è proprio la straordinaria longevità.

Il 1917 fu anche un anno di profonde rivoluzioni che scossero l’Europa. Lo Strevi, invece, è un vino che ha fatto la sua rivoluzione nel restare uguale a sé stesso, inalterato nei processi produttivi.

La Doc Strevi viene riconosciuta solo nel 2005: all’interno del disciplinare è definito come un vino passito da uve Moscato bianco, al 100% coltivate all’interno del territorio di Strevi.

I terreni sono ubicati, sempre per disciplinare, al di sopra dei 160 metri slm, ben soleggiati e con una composizione prevalentemente argillosa-marnosa e calcarea.

Le rese sono basse, non superiori a 6 tonnellate l’ettaro.

A caratterizzare il processo di produzione dello Strevi è quanto accade dopo la raccolta delle uve, per ottenerne l’appassimento graduale.

La tradizione della Valle Bagnario

È a questo punto che la terminologia del disciplinare lascia spazio ai saperi di un territorio leggendario, la Valle Bagnario, che, secondo i documenti storici, può essere identificata come la terra di origine di questo vino. Già nel 1078 – hanno portato alla luce gli studi di Antonio Repetti – si ha notizia di una vendita di vigne site in località Bagnario. Cinquecento anni più tardi è invece una missiva del tribunale di Casale a chiedere dei vitigni di “moscatello” per una vigna di proprietà del “serenissimo Duca di Mantova”.

Il passito della Valle Bagnario nei secoli si afferma come un piccolo gioiello, però marginale dal punto di vista produttivo. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento si contano sul territorio almeno quattro grandi cantine, tra cui quella del Cavalier Balbi dove venne ospitato Trilussa, però attive, soprattutto, per produzione e commercializzazione di spumante.

In Valle Bagnario sopravviveva, contemporaneamente, la tradizione contadina di un vino antico come il Moscato passito. Era quasi un unicum in Piemonte dove la tecnica dell’appassimento restava abbastanza limitata: oltre a Strevi si aveva notizia di passiti solo a Canelli e a Caluso. Per produrre il Moscato passito di Strevi si usava sfruttare il calore naturale del sole di fine estate e inizio autunno così da concentrare gli zuccheri.

Alcuni giorni prima della vendemmia si selezionavano i grappoli migliori, con acini piccoli e spargoli, mai quelli in punta di tralcio. Una volta raccolte, le uve venivano portate in cascina  dove erano riposte sui graticci di legno fissati ai muri più soleggiati.

Nel 2000 (un lustro prima della Doc) un gruppo di produttori ha costituito l’Associazione Produttori Moscato Passito della Valle Bagnario e ottenuto un presidio Slow Food – tuttora attivo – per tutelare i tempi e i processi produttivi di questo vino.

Il disciplinare che i produttori si sono dati sottolinea ancora, come centrale, l’appassimento delle uve che avviene direttamente al sole o in fruttaia coperta (c’è anche chi ha ideato un particolare sistema di vele che permette di schermare le uve sfruttando più che i raggi del sole, la brezza calda che asciuga). In questo periodo le
uve sono tenute costantemente sotto controllo, i grappoli con muffe vengono eliminati e gli acini osservati uno ad uno. In poco meno di due mesi viene perso il 60% del peso iniziale.

Terminato l’appassimento, è possibile procedere all’operazione (difficoltosa) di torchiatura seguita da una lunga fermentazione con parte delle bucce mondate dai vinaccioli e dalle scorie.

Questa si arresta a un grado alcolico alto: circa 13,5 – 14 gradi. A questo punto si procede al passaggio in botte (o in acciaio inox), anche per un anno, e successivamente in bottiglia dove il
vino resta almeno altri sei mesi per affinarsi.

La commercializzazione, da disciplinare, è possibile solo due anni dopo la vendemmia. Attualmente la superficie vitata complessiva dello Strevi è di 2,5 ettari, di cui circa l’80% prodotto nell’ambito del territorio della Valle Bagnario e quindi dell’Associazione Produttori che conta sei aziende aderenti. La produzione complessiva è di circa 150 quintali di uva: questi, trasformati in vino, equivarranno a non più di 20.000 bottiglie finali (da 0,375).

Strevi tra storia, gastronomia e leggenda.

Secondo la ricostruzione settecentesca del poeta tedesco Hans Bart il nome di Strevi si lega a una curiosa leggenda (e al vino). In un’epoca antica, in una delle cascine del luogo, arrivarono dieci fratelli che furono accolti dal padrone di casa con generose coppe di vino locale. Sette di loro approfittarono dell’ospitalità per bere fino a quando non caddero nel sonno, ormai completamente
ubriachi. Gli altri tre invece preferirono bere con morigeratezza. Il giorno dopo, al momento di riprendere il cammino, i tre sobri erano pronti, mentre i sette ebbri preferirono dormire.

Così mentre i primi, dopo aver percorso alcuni chilometri, fondarono il borgo di Trisobbio, i “Septem Ebrii” stregati dalla bellezza del paesaggio e dall’ottimo vino che qui si produceva preferirono fermarsi e diedero vita al borgo di Strevi. Più aderente alla realtà l’interpretazione dello storico locale Italo Scovazzi che propende per un’origine dal latino “Septemviri” (collegio sacerdotale romano) a testimonianza dell’importanza del borgo già intorno al I sec. AC quando era un punto di sosta sulla via Emilia Scauri che congiungeva la Liguria a Tortona.

La prima citazione ufficiale di Strevi compare nel X secolo, all’interno della Charta di fondazione dell’Abbazia di S. Quintino di Spigno. La costruzione dell’odierna Strevi, nel borgo superiore,
inizia invece nel Quattrocento quando alcune famiglie benestanti erigono qui le loro dimore. Il borgo si struttura come roccaforte militare intorno al castello che conserva ancora il grande scalone e l’imponente camino dei conti Valperga. Altrettanto importante, da un punto di vista architettonico, la chiesa parrocchiale che nell’abside reca testimonianza del suo primo utilizzo come bastione militare.

Per trovare i tesori più importanti bisogna però volgere lo sguardo alle pareti interne, con le opere del pittore Ivaldi di Ponzone detto “il muto” e una stupenda riproduzione del San Michele  Arcangelo di Guido Reni. Altrettanto ricca la dotazione enogastronomica, che il Comune ha voluto valorizzare con l’apposizione della De.Co. (denominazione comunale) su diversi prodotti. La cucina è quella tipica dell’Acquese e della Valle Bormida, con le torte di verdure di influsso già ligure, le zucchine che crescono copiose nelle aree pianeggianti, ai primi gli agnolotti e le paste
fresche come la “Regina di Strevi” De.Co.; tra i secondi sono le carni a dominare la scena accanto al coniglio e allo stoccafisso. Il piatto più rappresentativo della cucina locale è,  però, una ricetta povera, tipica della cucina di strada – la farinata – ovvero una sorta di panella preparata con la farina di ceci e cotta nel forno a legna.

Il reparto dolce (e non poteva essere altrimenti in un paese che lega la sua fama proprio ai vini da dessert) è molto ricco, a partire da amaretti e torrone, contrassegnati dalla denominazione
comunale. I primi sono prodotti con mandorle (oppure nocciola) e albume d’uovo, lavorati a mano; il secondo contempla nocciola, della varietà Tonda Gentile (la stessa che è alla base anche della torta di nocciola, altro prodotto De.Co.), miele, albume e zucchero, impastati e cotti a bagnomaria per alcune ore. De.Co. sarà anche un dolce al cucchiaio che qui si lega ancor più fortemente al Moscato: lo zabaione.

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